Articolo 21

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. [...]

i Documenti

Libertà d’espressione e diritto all’informazione

Le questioni attuali

  • Stefano Rodotà, Un articolo 21 bis per Internet, 2009

    E’ utile ipotizzare una modifica dell’articolo 21 della Costituzione per sancire in modo più chiaro il diritto di accedere a Internet e fare un esplicito riferimento alle innovazioni introdotte dalla rivoluzione digitale, dalla comunicazione interattiva e dai social network?

    Rodotà: In Italia una modifica dell’articolo 21 della Costituzione potrebbe avere la forma seguente: “Tutti hanno uguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”. Questa formulazione può certamente essere discussa.

    Perché proporre una modifica della Costituzione che sancisca il diritto di accedere a Internet? E’ davvero necessario muoversi in questa direzione? […] E’ forse una mossa inutile, poiché già le norme costituzionali vigenti comprendono questa ipotesi, come fa l’art. 21 parlando del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione? […] E’ una iniziativa pericolosa, perché mette le mani proprio su quella prima parte della Costituzione che si vuole difendere da ogni attacco?

    Domande tutte legittime, e che aiutano a chiarire meglio il senso dell’iniziativa. Ricordo anzitutto che il tema è ormai al centro di una attenzione davvero planetaria. Diversi paesi hanno già dato riconosciuto il diritto di accedere a Internet come diritto fondamentale della persona con una varietà di strumenti - costituzioni (Estonia, Grecia, Ecuador), decisioni di organi costituzionali (Conseil Constitutionnel, Francia), legislazione ordinaria (Finlandia) […]. Se la proposta di un articolo aggiuntivo spingerà ad una reinterpretazione dell’art. 21 e ad una estensione della garanzia costituzionale, non sarà un risultato da poco. […] L’apertura verso un diritto ad Internet rafforza indirettamente, ma in modo evidente, il principio di neutralità della rete e la considerazione della conoscenza in rete come bene comune, al quale deve essere garantito l’accesso. Per questo è necessario affermare una responsabilità pubblica nel garantire quella che deve ormai essere considerata una precondizione della cittadinanza, dunque della stessa democrazia. […] Solo se cresce la consapevolezza che siamo di fronte ad un diritto fondamentale della persona è possibile contrastare le logiche securitarie e mercantili che restringono il diritto a Internet.

  • Enzo Cheli, La giurisprudenza della Corte costituzionale italiana in tema di media, Relazione alla Corte Costituzionale. 2010

    A partire dall’inizio del nuovo secolo il mondo della comunicazione di massa è profondamente mutato con lo sviluppo della televisione satellitare e digitale (che favorisce i servizi interattivi e porta al declino della televisione generalista tradizionale); con l’esplosione dei nuovi servizi della società dell’informazione erogati attraverso Internet e la telefonia mobile; con la crisi che ha colpito la stampa e l’editoria tradizionale. Insieme con il mondo dei media in pochi anni sono cambiati i termini sia dell’offerta che della domanda di informazione.

    Con riferimento a questo nuovo quadro non è lontano dal vero chi pensa che molto presto saranno gli organi di giustizia costituzionale ad essere investiti dei problemi del tutto inediti che l’uso della rete e dei nuovi media va ponendo: problemi che già oggi investono la definizione di un diritto di accesso alla rete ed ai suoi contenuti come nuova frontiera della libertà di espressione; la sicurezza delle reti e la lotta alla criminalità informatica; i rischi che investono la persona e la sfera della sua riservatezza di fronte allo sviluppo delle banche dati e dei motori di ricerca; la tutela sempre più problematica del diritto di autore.

    Sono campi nuovi che si aprono oggi agli interventi del potere legislativo e che imporranno presto al giudice costituzionale una lettura aggiornata delle norme costituzionali in tema di libertà di espressione e di “diritto all’informazione”. Difficile per il momento fare previsioni in ordine ad una materia che resta sempre più legata agli sviluppi di discipline poste sia a livello europeo che internazionale.

    Ma resta l’esperienza del passato che induce ad un giudizio positivo sulla tenuta e sulla capacità di adattamento del quadro costituzionale relativo alla libertà di espressione del sistema dei media: un quadro che ha sinora potuto assorbire le spinte dell’evoluzione tecnologica attraverso il filtro delle interpretazioni evolutive adottate in sede di giustizia costituzionale.

    Come va tutelata e potenziata la “libertà” della stampa intesa come autonomia finanziaria degli organi d’informazione (i cosiddetti “editori puri”) e conoscenza da parte dei cittadini dei loro assetti proprietari?

    L’art. 21 prevede con una norma programmatica di forte valenza politica (“La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica”), che si possa imporre la piena conoscenza dei mezzi di finanziamento della stampa periodica: e questo al fine di orientare i lettori sui possibili rapporti di influenza tra il potere economico e l’informazione.

    Come conciliare la libertà di espressione con la tutela (soprattutto nella rete e nei social network) della dignità e della privacy della persona e con il cosiddetto “buon costume” a cui l’articolo 21 fa riferimento (senza specificarne il senso)?

    La giurisprudenza costituzionale, in numerose pronunce, ha richiamato la presenza di una serie di limiti impliciti connessi alla tutela di valori di rilevanza costituzionale che possano entrare in conflitto con la libertà di espressione, quali sono i valori attinenti all’onore, alla reputazione ed alla riservatezza della persona; all’ordine pubblico; alla sicurezza dello Stato; al regolare svolgimento della giustizia; alla tutela di alcune forme di segreto. Questi limiti impliciti, nella visione della Corte, possono condizionare, ma non devono snaturare od annullare la libertà di espressione. Da qui l’esigenza di un equilibrato bilanciamento, da esercitare caso per caso tra libertà di espressione ed altri diritti fondamentali sempre nel rispetto dei principi della riserva di legge e della riserva di giurisdizione, principi che, nel complessivo impianto costituzionale, rappresentano i più forti strumenti di tutela delle libertà fondamentali.

  • Editore puro, Enciclopedia Treccani on line

    L’espressione “editore puro” indica chi svolge unicamente attività editoriale, senza collegamenti a gruppi finanziari o partiti politici. In Italia le battaglie finanziarie per il controllo di alcuni importanti quotidiani e la chiusura di testate storiche hanno fatto parlare di scomparsa dell'editore puro, nel senso dell'imprenditore che poteva permettersi di restare autonomo: la crisi più generale dell'editoria cartacea nel 21° sec. ha infatti colpito più gravemente gli editori puri. La definizione può riguardare anche quei mezzi di informazione che sono editi da cooperative di giornalisti e vivono soprattutto dei contributi statali all'editoria. I tagli a questi contributi, effettivamente operati o annunciati più volte da vari governi, secondo alcuni potrebbero far scomparire alcune testate e ridurre di fatto il pluralismo dell'informazione in Italia.

  • Enzo Cheli, La giurisprudenza della Corte costituzionale italiana in tema di media, Relazione alla Corte Costituzionale. 2010

    È giusto rendere esplicito nell’articolo 21, accanto al “diritto di informare” ed esprimere liberamente le proprie opinioni, il “diritto ad essere informato” proprio dei cittadini in quanto componenti di quella opinione pubblica su cui si fonda la stessa democrazia?

    La Corte ha adottato in tema di libertà di espressione un orientamento costante fondato su una convinzione precisa: la convinzione della stretta connessione esistente tra la libertà di espressione ed il buon funzionamento della democrazia, tanto più di una democrazia quale quella definita dalla costituzione italiana con un impianto accentuatamente pluralista.

    Da qui il riconoscimento che la Corte fa fin dalle sue prime sentenze del carattere “fondamentale” – anzi “fondamentalissimo” – dell’art. 21 in quanto “pietra angolare dell’ordine democratico” (v. sent. 84/1969). […]

    La prima conseguenza è quella che conduce a riferire all’art. 21 la tutela non solo del “diritto di informare” come profilo attivo della libertà di espressione riferita a coloro che operano nel sistema dei media, ma anche del “diritto all’informazione” come profilo passivo riferito a tutti i cittadini in quanto componenti di quella opinione pubblica su cui la democrazia si fonda.

    Di questo diritto la costituzione italiana non aveva fatto menzione, nonostante che negli stessi anni in cui la nostra costituzione vide la luce altre Carte – come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948 (all’art. 19), la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (all’art. 10) o la Costituzione della Repubblica federale tedesca del 1949 (all’art. 5) – avessero espressamente richiamato, nell’ambito della libertà di espressione anche il diritto di ciascuno a “ricevere” e “cercare” le informazioni. Per questo, pur nel silenzio della nostra costituzione, la Corte costituzionale italiana non ha esitato ad individuare nel “diritto all’informazione” il profilo implicito della libertà di espressione connesso all’esigenza che “la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica che dia a tutti la possibilità di concorrere alla formazione della volontà generale (v. sent. n. 112/93 e, in precedenza sentt. n. 122/70; 105/72; 1/81; 194/87).

    Da qui una seconda conseguenza sempre di ordine generale. Il riconoscimento di un “diritto all’informazione” connesso alla libertà di espressione induce la Corte a riferire all’art. 21 il valore di un diritto non solo “individuale”, ma anche “funzionale” in quanto strumentalmente orientato al buon funzionamento della vita democratica. Da questa funzione la Corte fa, quindi, discendere per tutti i mezzi di comunicazione di massa la natura di “servizi pubblici o comunque di pubblico interesse” destinati a soddisfare l’ “interesse generale” all’informazione: un interesse che, sempre nella visione della Corte, per essere adeguatamente soddisfatto impone il pluralismo delle fonti di informazione; la completezza, la correttezza e la continuità dell’attività informativa; l’obbiettività e l’imparzialità delle notizie.

  • Il Manifesto di Assisi per una corretta informazione (2017)
    1. Non scrivere degli altri quello che non vorresti fosse scritto di te
      Scrivere significa comunicare. Comunicare significa comprendere. L'ostilità rappresenta una barriera insormontabile per la comprensione.
    2. Non temere le rettifiche
      Una corretta informazione lo è sempre. Lo è soprattutto quando si è onesti con i lettori. Non temere di dare una rettifica quando ti accorgi di aver sbagliato.
    3. Dai voce ai più deboli
      Ricorda di dare voce a chi non ha altro possesso che la propria vita, difendi la tua identità ma rispetta sempre diversità e differenze.
    4. Impara a “dare i numeri”
      Quando scrivi ricorda sempre di integrare le opinioni con tutti i dati utili a una corretta informazione.
    5. Le parole sono pietre, usale per costruire ponti
      Ricorda che le parole, se male utilizzate, possono ferire e uccidere; cancella dal tuo blog o dal tuo sito i messaggi di morte; denuncia gli squadristi da tastiera e cerca di costruire ponti scalando i muri della censura.
    6. Diventa “scorta mediatica” della verità
      Fatti portavoce di chi ha sete di pace, verità e giustizia sociale.
      Quando un cronista è minacciato da mafie e camorre riprendi il suo viaggio e non lasciarlo solo.
    7. Non pensare di essere il centro del mondo
      Non credere di essere il fulcro dell'Universo, cerca piuttosto di illuminare con quello che scrivi le periferie del mondo e dello spirito.
    8. Il web è un bene prezioso. Sfruttalo in modo corretto
      Ricorda che internet è rivoluzione, ma quello che scrivi è rivelazione di quello che sei.
    9. Connettiti con le persone
      L'obiettivo finale non deve essere avere una rete fatta di fili, ma una rete fatta di fratelli.
    10. Porta il messaggio nelle nuove piazze digitali
      San Francesco operò una rivoluzione, portando il messaggio dalle chiese alle piazze; oggi ricorda di incarnare una nuova rivoluzione portando il messaggio dalle piazze alle nuove agorà.
  • “Difendere la democrazia nell’era del digitale”
    Appello di 560 intellettuali di tutto il mondo contro la sorveglianza di massa

    Negli ultimi mesi è diventato di dominio pubblico in che misura viene esercitata la sorveglianza di massa. Basta qualche clic e lo stato può accedere al vostro cellulare, alla vostra posta elettronica, alla vostra attività sui social network e alle ricerche su Internet. Può seguire le vostre simpatie e attività politiche e, in collaborazione con le grandi società di Internet, raccoglie e archivia i vostri dati, potendo così prevedere i vostri consumi e il vostro comportamento.

    L'inviolabile integrità dell'individuo è il pilastro fondamentale della democrazia. L'integrità umana va oltre la fisicità corporea. Tutti gli esseri umani hanno il diritto di non essere osservati e disturbati nei loro pensieri, nel loro ambiente personale e nelle comunicazioni.

    Questo diritto umano fondamentale è stato annullato e svuotato dall'uso improprio che stati e grandi imprese fanno delle nuove tecnologie a fini di sorveglianza di massa.

    Una persona sotto sorveglianza non è più libera; una società sotto sorveglianza non è più una democrazia. Per mantenere una qualche autenticità i nostri diritti democratici devono valere nello spazio virtuale come in quello reale.

    • La sorveglianza viola la sfera privata, e compromette la libertà di pensiero e di opinione.
    • La sorveglianza di massa tratta ogni cittadino alla stregua di un potenziale sospetto. Sovverte una delle nostre conquiste storiche, la presunzione di innocenza.
    • La sorveglianza rende l'individuo trasparente, mentre lo stato e le grandi imprese operano in segreto. Come abbiamo visto questo potere è oggetto di abusi sistematici.
    • La sorveglianza è furto. Questi dati non sono proprietà pubblica: appartengono a noi. Nel momento in cui vengono usati per prevedere il nostro comportamento veniamo derubati di qualcos'altro: il principio del libero arbitrio, fondamentale per la libertà democratica.

    Rivendichiamo il diritto di tutte le persone a determinare, in quanto cittadini democratici, in che misura possa avvenire la raccolta, archiviazione e elaborazione dei propri dati personali e ad opera di chi; il diritto di essere informati sulle modalità di archiviazione dei propri dati e sull'uso che ne viene fatto; di ottenere la cancellazione dei propri dati nel caso in cui siano stati raccolti e archiviati illegalmente.

    FACCIAMO APPELLO AGLI STATI E ALLE IMPRESE perché rispettino questi diritti.

    FACCIAMO APPELLO A TUTTI I CITTADINI perché lottino in difesa di questi diritti.

    FACCIAMO APPELLO ALLE NAZIONI UNITE perché riconoscano l'importanza fondamentale della protezione dei diritti civili nell'era digitale e della creazione di una Carta internazionale dei diritti digitali.

    FACCIAMO APPELLO AI GOVERNI affinché sottoscrivano tale convenzione e vi aderiscano.

    L'elenco completo dei firmatari.

  • Cyberbullismo

    cyberbullismo s. m. Bullismo virtuale, compiuto mediante la rete telematica. ◆ [tit.] Cyberbullismo, il nuovo pericolo per i giovani arriva sul web [testo] […] Si chiama «cyberbullismo». Nel giro di un anno, sarà una parola familiare agli esperti. Una variante diabolica e sommersa, che impegna i bulli abituali, ed incessantemente ne recluta di nuovi. (Marida Lombardo Pijola, Messaggero, 10 febbraio 2006, p. 1, Prima pagina) • Si può dire che c’è più violenza di un tempo? «No, sono cambiate le forme, oggi c’è il cyberbullismo, l’uso dei telefonini, la tecnologia, hanno l’effetto di amplificare gli episodi» [Anna Oliverio Ferrarisintervistata da M. C.]. (Repubblica, 10 gennaio 2007, p. 37, Cronaca) • c’è chi entra negli account altrui e cambia la password bloccando l’accesso al legittimo proprietario o chi, sul web, scopre il numero di cellulare di un compagno e lo tormenta con sms e squilli a vuoto in piena notte. Cyberbullismo ma non solo: la paura più grande, in fatto di Rete e minori, si chiama pedofilia. (Giulia Ziino, Corriere della sera, 11 febbraio 2008, p. 23).
    Composto dal confisso cyber- aggiunto al s. m. bullismo.

    Fonte: Vocabolario Treccani

  • Fake news

    fake news loc. s.le f. pl. inv. Notizie false, con particolare riferimento a quelle diffuse mediante la Rete. ◆ Se il web è sempre stato una prateria, si aprono così nuovi spazi per altri post che ''galleggeranno'' sul web, senza alcuna possibilità di collegarli a un'identità riconosciuta, proprio mentre Facebook e Google sono alle prese con la necessità di porre un freno alla circolazione di notizie false sulle loro piattaforme. Simile a Medium, già popolare negli Stati Uniti, Telegraph presta il fianco a 'trolls' e autori di fake news, che potrebbero essere attribuite a chiunque. (Repubblica.it, 25 novembre 2016, Tecnologia) • Negli ultimi giorni la Media Editor del Washington Post, Margaret Sullivan, ha chiesto che si mettesse in soffitta il termine “fake news“, proprio perché di per sé fuorviante. Secondo la giornalista americana bisogna distinguere tra cose diverse che, allo stato attuale, fanno invece tutte capo alla medesima, generica, categoria. Le differenze tra una bufala creata ad arte e un errore giornalistico, per esempio, sono notevoli e vanno affrontate in modi differenti. Allo stesso tempo una teoria del complotto sgangherata fondata sul nulla e un’opinione estremamente faziosa e politicizzata – magari posta a sostegno di posizioni che giudichiamo repellenti – sono ancora elementi differenti che non è possibile trattare allo stesso modo. (Philip Di Salvo, Wired.it, 13 gennaio 2017, Attualità/Media) • [tit.] Putin: “Chi commissiona fake news su / Trump è peggio delle prostitute”. (Fatto Quotidiano.it, 17 gennaio 2017, Mondo).
    Dall'ingl. fake news ('notizie false').

    Fonte: Vocabolario Treccani

  • Diritto all'oblio

    diritto all'oblio (Diritto all'Oblio) loc. s.le m. Diritto di un individuo a essere dimenticato e, in particolare, a non essere più menzionato in relazione a fatti che lo hanno riguardato in passato e che erano stati oggetto di cronaca. ◆ [tit.] Via da Google. La Corte Europea / sancisce il "diritto all'oblio" // [sommario] I motori di ricerca obbligati dai giudici a eliminare, su richiesta, i / "contenuti non più rilevanti". Ma la legislazione comunitaria è ancora / farraginosa. (Foglio.it, 13 maggio 2014, Articoli) • La culla del «diritto all’oblio» è invece la Rete e per questa ragione ha natura virale. «È un nuovo diritto che si fa largo fra quelli classici. Oblio è una parola letteraria, un po’ arcaica, che nessuno userebbe correntemente se non in termini scherzosi. Ora torna in gioco in questo nuovo contesto e diventa neutra. Un esempio di come la partita non sia mai chiusa, in fatto di lingua. E questa potrebbe durare a lungo». (Andrea Pasqualetto intervista Luca Serianni, Corriere della sera, 28 dicembre 2014, p. 23) • [tit.] Diritto all'oblio, lo schiaffo di / Google alla Francia: no alla / cancellazione fuori dall'Ue. (Repubblica.it, 30 luglio 2015, Tecnologia) • Il terrorismo non si cancella. Il Garante della Privacy ha bocciato il ricorso di un ex terrorista italiano sulla rimozione da parte di Google dei contenuti che riguardano il suo passato. Oggetto di discussione, il diritto all’oblio. (Marta Serafini, Corriere della sera.it, 22 giugno 2016, Opinioni) • Cosa si può fare per tutelarsi e per far valere i propri diritti in caso si volesse togliere una foto o un video dal web? Ecco cosa prevede la legge in Italia. In Italia esiste il cosiddetto Diritto all’Oblio. Questo è il diritto di ognuno di noi di chiedere di cancellare e rimuovere il materiale presente online che ci riguarda. Questo diritto è stato confermato dalla Corte di Giustizia Europea con una sentenza del 13 maggio 2014. (Cristiano Cominotto, Giornale.it, 19 settembre 2016, Cronache).
    Composto dal s. m. diritto, dalla preposizione articolata allo e dal s. m. oblio.

    Fonte: Vocabolario Treccani

  • Democrazia elettronica o e-democracy

    e-democracy (edemocracy), s. f. inv.   Utilizzo di procedure e piattaforme elettroniche allo scopo di incrementare la partecipazione democratica dei cittadini, mediante il loro coinvolgimento nei processi decisionali e la promozione di meccanismi per monitorare il funzionamento della politica. In particolare, l’adozione delle nuove tecnologie dell’informazione trasforma la natura della comunicazione, rendendola  orizzontale, paritaria, e consentendole di procedere dal basso verso l'alto, per fare anche a meno dei tradizionali mediatori sociali. ◆ «Questa mia sfida, che lancio attraverso l’Europa, la considero anche destinata a diffondere quella che possiamo chiamare una e-democracy - dice il commissario [Anna Diamantopoulou] -. Nei Paesi membri trapela una grande distanza dalle istituzioni comunitarie. C’è carenza di informazioni. Non tutti sanno che ormai praticamente tutte le informazioni sulle iniziative dell’Ue sono disponibili via internet». (Ivo Caizzi, Corriere della sera, 14 aprile 2000, p. 23) • [tit.] Nuove tecnologie / L’Ars [Assemblea regionale siciliana] apre il sito per interagire con i cittadini / è l’«e-democracy» [testo] […] L’utente, inoltre, potrà anche partecipare ai lavori delle commissioni legislative e potrà pure interagire con tutti gli uffici amministrativi e politici di Sala d’Ercole. Tutto ciò, nel linguaggio moderno, si chiama e-democracy: democrazia attraverso la rete. (G. Min., Sicilia, 30 ottobre 2004, p. 7, Fatti di Sicilia) • [tit.] Una rete che colleghi tutti gli Enti ecco l’obiettivo dell’edemocracy [testo] Dall’egovernment all’edemocracy, dai siti dei singoli enti a una Rete che colleghi tutte le pubbliche amministrazioni a vantaggio degli utenti ma anche degli stessi operatori pubblici. Infatti il vantaggio di Internet, colto dagli utenti pubblici e privati, è di rendere facilmente accessibili e collegate tra loro informazioni e servizi che in passato potevano essere erogate solo attraverso un contatto diretto tra il cittadino e il dipendente pubblico. (Rosaria Amato, Repubblica, 29 ottobre 2007, Affari & Finanza, p. 61).
    Dall’ingl. e-democracy (‘democrazia elettronica’), a sua volta composto dal confisso e- (ricavato dall’agg. electronic) e dal s. democracy.

    Fonte: Vocabolario Treccani

  • Querele temerarie: novità dal nuovo ddl sul processo civile e dagli ordinamenti degli altri paesi europei

    Mentre il governo sta decidendo sul nuovo ddl per la riforma del processo civile, e con l’auspicio che l’esecutivo e il parlamento tengano conto delle proposte della FNSI, aggiorniamo la questione delle querele temerarie, sempre più strumentalizzate da chi vuole porre un freno alla libera informazione.
    Come sappiamo, le querele temerarie vengono utilizzate da chi, paventando una (insussistente) lesione della propria reputazione e facendo leva sul diritto alla tutela della reputazione stessa, sporge querela (o minaccia di farlo) al solo fine di intimidire o minacciare il giornalista.

    Tale fenomeno ha preso piede proprio in ragione del fatto che il legislatore italiano non ha previsto una vera e propria sanzione per chi, sapendo di non essere nel giusto, abusa dello strumento giuridico della querela al solo scopo di arrecare danni al giornalista.

    In altri paesi europei, al contrario, il legislatore ha previsto – per arginare il fenomeno – il versamento di una cauzione da parte di chi deposita una querela, che servirebbe a risarcire il querelato in caso di assoluzione dello stesso.
    Tale espediente sarebbe utile anche in Italia per evitare o quanto meno limitare tali abusi e la conseguente compressione del fondamentale diritto di cronaca.

    E’ opportuno evidenziare, tuttavia, che negli ultimi anni si è assistito ad una crescita esponenziale del ricorso alla giustizia civile in luogo della tutela penale (querele temerarie): lo strumento della citazione in sede civile per il risarcimento dei danni, che potendo comportare conseguenze molto pesanti – se non addirittura insostenibili – per un giornalista o una testata giornalistica assolve allo stesso scopo intimidatorio di una querela temeraria, presenta numerosi “vantaggi” rispetto alla tutela penale, di ordine soprattutto processuale.

    Mentre in sede penale, infatti, il termine per presentare la querela è di 90 giorni dalla pubblicazione della notizia, il termine di prescrizione in sede civile è quinquennale: l’art. 2947 c.c. prevede infatti che «il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato» e, «in ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile».

    Va inoltre considerato che, mentre nella procedura penale la querela presentata dalla persona che si sente diffamata è soggetta ad una attività di “filtro” da parte del magistrato, che accerta la rilevanza penale o meno del fatto oggetto della querela stessa, le citazioni in sede civile non sono sottoposte ad alcun esame preliminare e vengono avviate all’esame del giudice civile senza un vaglio preventivo.

    Chiusa la parentesi delle cause civili, è necessario fare una premessa di ordine generale: è evidente che anche un giornalista possa sbagliare, sia in buona fede sia invece abusando della propria posizione per diffamare qualcuno; in tali casi è giusto e legittimo che il cittadino effettivamente leso abbia il diritto di far valere le sue ragioni ed ottenere un eventuale risarcimento dei danni subiti.

    Ma qui discutiamo dei casi in cui è evidente l’infondatezza di quanto posto alla base della querela e nei quali dovrebbe (uso volutamente il condizionale) essere garantita una tutela efficace ai giornalisti lesi ed intimiditi.

    La Cassazione in merito ha posto dei limiti a tale tutela, disponendo che la denuncia di un reato (tanto nell’ipotesi in cui esso sia perseguibile d’ufficio, quanto in quella in cui sia procedibile solo su querela di parte) non è mai fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante, anche in caso di proscioglimento o di assoluzione del denunciato.
    Il denunciante, dunque, salvo che abbia agito con l’intenzione deliberata e consapevole di calunniare, non è tenuto al risarcimento se la sua richiesta di condanna viene rigettata e l’imputato assolto, per due ordini di motivi.

    In primo luogo, ad ogni cittadino è riconosciuto il diritto di agire (in via civile o penale) a tutela dei propri diritti: stabilire una sanzione per l’azione giudiziaria, anche se infondata, equivarrebbe a limitare tale diritto.
    In secondo luogo, nel processo penale l’azione è portata avanti non dalla parte (come invece avviene nel giudizio civile), ma dallo Stato, nella persona degli organi inquirenti e della Procura della Repubblica e dunque potrebbe essere solo lo Stato il soggetto responsabile per l’azione penale infondata.

    In poche parole, pertanto, colui che è stato assolto nel processo penale a seguito della presentazione di una querela temeraria ha solo due possibilità:

    • può chiedere il risarcimento del danno in sede civile al denunciante, solo se questi abbia agito con dolo, ossia con l’intento di calunniare l’altra persona che ben sapeva essere innocente (la calunnia è infatti fonte di responsabilità e di risarcimento – con prescrizione quinquennale);

    • nel caso in cui non vi sia stata calunnia, può chiedere il rimborso delle spese necessarie per difendersi nel giudizio penale se il querelante/denunciante abbia agito temerariamente, ossia con colpa grave. Questo è il caso della “responsabilità processuale aggravata” o lite temeraria, disciplinata dall’art. 96 c.p.c., il cui procedimento volto al risarcimento dei danni va presentato allo stesso giudice penale che ha deciso il processo conclusosi con l’assoluzione (unico giudice in grado di valutare la sussistenza o meno dei presupposti di un risarcimento per colpa grave richiesto dall’imputato da lui stesso assolto). La norma in esame, che non ha natura meramente risarcitoria ma “sanzionatoria”, manifesta il tentativo di utilizzare la leva dei costi prodotti dal fenomeno processuale, al fine di scoraggiare l’abuso del processo.

    Dal quadro sopra delineato ritengo che la tutela offerta dal nostro ordinamento ai giornalisti contro gli abusi che strumentalizzano la tutela della reputazione sia fortemente limitata, in quanto accedendo all’interpretazione fornita dalla giurisprudenza della normativa vigente, la temerarietà viene considerata un sinonimo di dolo o di colpa grave: si arriva pertanto al risultato che per condannare la parte soccombente (querelante temerario) al risarcimento dei danni o al pagamento delle spese anche della parte avversa (soggetto assolto) quest’ultimo debba fornire prova del fatto che la causa è stata deliberatamente intentata in mala fede. La tutela inoltre è ulteriormente limitata dal fatto che essa è solo posticipata rispetto alla consumazione di un reato o ad un abuso in sede civile che sarebbe invece opportuno impedire in via preventiva.

    Fortunatamente la riforma del processo civile dovrebbe andare in direzione opposta: il Disegno di Legge n. 2953-a «delega al governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile» approvato il 10 marzo 2016, nella parte relativa al “processo civile in generale” prevede alcune modifiche dell’art. 96 c.p.c. che consentirebbero una maggiore tutela a favore di chi subisce procedimenti temerari:

    all’articolo 96, terzo comma, del codice di procedura civile, prevedere che nella determinazione della somma ivi prevista il giudice, nel caso in cui la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede, condanni la medesima parte soccombente al pagamento di una somma in favore della controparte, determinata tra il doppio e il quintuplo delle spese legali liquidate;

    “prevedere che il giudice, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91 del codice di procedura civile, condanni d’ufficio e anche se non sussistono gli altri presupposti di cui all’articolo 96, primo comma, del codice di procedura civile, la parte soccombente, che ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, al pagamento di una sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende, di importo determinato, tenendo conto del valore della controversia, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per l’introduzione del giudizio.”

    Una tutela preventiva ed effettiva della libera informazione, seguendo il solco di queste prime proposte di riforma della giustizia, aiuterebbe l’Italia ad uscire dal novero – nel quale è entrata dal 2008 – dei paesi di serie B, in cui l’informazione giornalistica è solo “parzialmente” libera. Seguire l’iter del nuovo ddl sarà quindi un impegno importante per la tutela dell’articolo 21 della Costituzione.

    Fonte: articolo21.org

  • Vladimiro Giacché, Eufemismo ed iperbole nella comunicazione politica, 2011

    «I metodi per distorcere la verità possono essere molto più efficaci della sua semplice rimozione. Non è necessario far finta che la verità non esista. Basta cambiarle i connotati. Ovviamente c’è modo e modo di cambiare i connotati alla verità. […] A questo riguardo l’arma principale è rappresentata dall’eufemismo. La maggior parte degli eufemismi comporta una semplice riformulazione tranquillizzante e rassicurante attraverso la quale il fenomeno descritto viene, per così dire, addomesticato e reso innocuo, ossia non più in grado di suscitare reazioni ostili (indignazione, protesta, ecc.)». (p. 37) «Gli eufemismi […] rappresentano il tratto distintivo di un’epoca in cui le cose “si fanno, ma non si dicono”. In tutti i casi in cui il livello di coscienza maturato nella società non tollererebbe azioni e situazioni che confliggono violentemente con esso, si provvede a edulcorare le descrizioni, a riformulare i fatti che si descrivono in termini più accettabili». (pp. 195-196). «La larga diffusione di questo strumento di mistificazione e rimozione della verità non deve però ingannare: neppure l’eufemismo è un’arma infallibile. Talvolta quest’arma si inceppa […] in questi casi la parole o l’espressione adoperata vanno oltre il segno e il significato dei termini in gioco risulta così stravolto da divenire autocontraddittorio. […] Quando ciò avviene, si ha un collasso dell’argomentazione e l’eufemismo degrada in ossimoro.

    Il più importante ossimoro in cui è scivolato negli ultimi tempi l’eufemismo è rappresentato dalla definizione di “guerra umanitaria». (p. 196-197)

    «Di segno opposto all’eufemismo è l’iperbole. Se l’eufemismo minimizza, l’iperbole esagera […] urla per farsi sentire e per catturare l’attenzione anche del più distratto. È facile osservare che dal terreno della pubblicità l’iperbole è ormai passata a pieno titolo nella comunicazione politica. Sono iperboliche molte delle formulazioni che negli ultimi anni ci hanno perseguitato da giornali e televisioni: si pensi anche solo alla “Guerra infinita”, allo “Scontro di civiltà”, all’ “Occidente sotto attacco”» […] L’iperbole che spadroneggia nella comunicazione politica contemporanea ha alcune caratteristiche di fondo: deve essere uno slogan di grande impatto, di semplice comprensione e – soprattutto – facilmente memorizzabile. L’obiettivo non è quello di sollecitare il ragionamento, ma di colpire». (p. 197)

    Vladimiro Giacché, La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea, Derive-Approdi, 2011

  • Vladimiro Giacché, Linguaggio politico e linguaggio pubblicitario, 2011

    «Il linguaggio politico attuale […] è completamente schiacciato sul linguaggio pubblicitario, sulla “nebulosa asintattica” della pubblicità. Le conseguenze sono notevoli. Se noi consideriamo che “l’arte pubblicitaria consiste soprattutto nell’invenzione di formulazioni persuasive che non sono né vere né false”, è chiaro che l’adesione a questa modalità di costruzione linguistica sposta il discorso pubblico su un piano che non ha più molto a che fare con la realtà e con un dibattito fondato su opzioni reali, su alternative verificabili.  Allo stesso modo, se il discorso preferito della pubblicità è il “discorso tautologico”, che mira a definire nel modo più allettante possibile la marca che vuol vendere, l’adozione di questa modalità di discorso ridurrà l’ “opinione pubblica critica” al livello del “pubblico dei consumatori”, ossia del destinatario delle mitologie del consumo. […] Il linguaggio pubblicitario è però la cifra anche del linguaggio televisivo in generale. È in particolare la semplicità e brevità-istantaneità degli enunciati a caratterizzare il linguaggio televisivo. A tale esigenza sono sacrificate tanto la complessità sintattica, quanto la ricchezza lessicale, e la completezza del ragionamento. Nei dibattiti su qualsiasi tema, l’argomentazione cede sempre più di frequente il passo allo slogan o addirittura all’insulto. E siccome la televisione è ormai il tramite fondamentale della formazione e dell’esperienza sociale delle persone, la conseguenza è il drammatico indebolimento della capacità stessa di argomentare e ragionare». (pp. 183-184)

    Vladimiro Giacché, La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea, Derive-Approdi, 2011

  • Laura Boldrini, Appello per il diritto a una corretta informazione #BastaBufale, 2017

    Essere informati correttamente è un diritto. Essere disinformati è un pericolo

    Ho deciso di lanciare questo appello perché ritengo che il web sia un importante strumento di conoscenza e democrazia. Ma spesso anche luogo di operazioni spregiudicate, facilitate dalla tendenza delle persone a prediligere informazioni che confermino le proprie idee. In rete sono nati fenomeni nuovi, come le fabbriche di bufale a scopo commerciale o di propaganda politica e certo giornalismo “acchiappaclick”, più interessato a incrementare il numero dei lettori anziché a curare l’attendibilità delle fonti.

    Le bufale creano confusione, seminano paure e odio e inquinano irrimediabilmente il dibattito.

    Le bufale non sono innocue goliardate. Le bufale possono provocare danni reali alle persone, come si è visto anche nel caso dei vaccini pediatrici, delle terapie mediche improvvisate o delle truffe online.

    Questo è il tempo della responsabilità. È necessario mobilitarsi, ciascuno di noi deve fare qualcosa per contrastare la disinformazione e contribuire a tutelare la libertà del web e la dignità di chi utilizza questo spazio che offre enormi opportunità culturali, relazionali ed economiche.

    Non si tratta né di bavagli né di censure. Si tratta di reagire e affrontare un problema che ci riguarda tutti. Firmare questo appello significa fare la propria parte e dare il proprio contributo. Alcuni ambiti, poi, sono più esposti di altri e hanno una maggiore responsabilità: la scuola in primis, ma anche l’informazione, le imprese, i social network. A chi vi opera chiediamo uno sforzo aggiuntivo.

    Firma per dire NO alle bufale, SÌ alla corretta informazione

    Laura Boldrini

    1. Scuola e l'università
      La scuola e l’università, che sono il motore primo per creare gli anticorpi necessari a contrastare la disinformazione, devono farsi protagoniste di un’azione culturale che tenda a sviluppare l’uso consapevole di Internet. Insegnare a usare gli strumenti logici e informatici per distinguere tra fonti affidabili o meno dovrebbe essere una priorità del sistema educativo, nell’obiettivo di sviluppare senso critico e cultura della verifica.
    2. Informazione
      In questo momento è di primaria importanza che i giornalisti e gli operatori dell’informazione aumentino lo sforzo del fact checking, del debunking - l’attività che consente di smascherare le bufale - e della verifica delle fonti. Così come gli editori dovrebbero, attraverso un investimento mirato, dotare le redazioni di un garante della qualità che sia facilmente accessibile ai cittadini, come già avviene in alcune testate.
    3. Imprese
      L’impegno passa anche per le aziende. Le loro inserzioni pubblicitarie non dovrebbero comparire su siti specializzati nella creazione e diffusione di false notizie, per non finanziare anche involontariamente la disinformazione e per non associare i propri prodotti a questi danni sociali.
    4. Social Network
      In quest’ottica un ruolo cruciale lo possono svolgere i social network, che dovrebbero assumersi le loro responsabilità di media company e indirizzare le loro politiche verso una maggiore trasparenza. Per contrastare fake news e discorsi d’odio è essenziale incrementare la collaborazione con le istituzioni e le testate giornalistiche, così come un maggiore investimento in risorse umane e tecnologie adeguate a fronteggiare il problema.
    5. Cultura, Sport, Spettacolo
      Ai protagonisti del mondo della cultura, dello sport e dello spettacolo chiedo, in quanto personalità capaci di raggiungere un vasto numero di persone, di spendersi contro le false notizie e la diffusione dell’odio.

    Fonte: bastabufale.it

  • Angelo Cardani, Fake news e interessi commerciali, 2017

    Nel suo intervento nella Sala della Regina alla Camera, Cardani, Presidente dell’Autorità per le Garanzie nella Comunicazioni, [AgCom] chiede anche una legge, nazionale oppure europea, contro le notizie false della Rete, che orientano l'opinione pubblica e qualche volta finanche le decisioni di voto, grazie alla velocità della loro diffusione e alla moltiplicazione virale assicurata dai social. Il nostro Garante prende atto della promessa dei colossi di Internet di mettere in campo algoritmi capaci di pulire l'informazione dai falsi non d'autore. Ma il conflitto d'interessi resta un rischio. Se una fake news porta traffico, i motori di ricerca possono tollerarla perché interessati a guadagnare in visitatori e pubblicità. D'altra parte, i giganti della Rete sono voraci di inserzioni. Nel 2016, queste hanno raggiunto il tetto degli 1,9 miliardi di ricavi (con Google e Facebook che mangiano la metà della torta, il 50 per cento). E' boom per le inserzioni dirette agli smartphone. Certo, un'informazione autorevole e pluralista ha bisogno di giornalisti bravi nel mestiere. Ma il settore editoriale - che accusa perdite del 25 per cento nei ricavi, negli ultimi cinque anni - licenzia i cronisti oppure rende il loro lavoro instabile, precario.

    Fonte: Repubblica-economia dell'11/07/2017

  • Renato Parascandolo, La difficile ricerca dell’obiettività, 2000

    L’inchiesta sul campo, uno strumento che affonda le sue origini nella sociologia accademica, presuppone che la situazione su cui s’indaga abbia una sua oggettività, che vi sia cioè una realtà di fatto, magari contraddittoria, volutamente occultata, o semplicemente confusa, che tuttavia può essere compresa e spiegata in modo univoco, razionale e obiettivo. Purtroppo questa banale considerazione si urta contro un pregiudizio fortemente radicato tra i giornalisti d’ogni tendenza, sia della carta stampata sia della televisione, secondo il quale “l’obiettività non esiste”.

    Talvolta si confonde la completezza con il pluralismo, due principi fondamentali della deontologia del giornalista che tuttavia attengono ad ambiti diversi: la completezza riguarda i fatti e la loro ricostruzione, il pluralismo riguarda le opinioni, (interpretazione, commenti, ecc.). Accade, quindi, che un articolo di giornale o un servizio televisivo sia considerato completo solo perché riporta le opinioni di tutti i protagonisti di un evento. Di conseguenza l’obiettività sarebbe nient’altro che la somma di diverse interpretazioni soggettive, quindi di tante faziosità, e il cittadino informato non sarebbe colui che ha conosciuto la verità di un certo evento inquadrato nel suo contesto prossimo e remoto, ma quello che ha avuto la pazienza di farsi un quadro completo delle differenti partigianerie, come se esistessero tante verità quanti sono gli interessi delle parti in gioco. Ma l’opinione, la doxa, è, per definizione, soggettiva, di parte, opinabile per l’appunto. L’esatto contrario della verità oggettiva (l’episteme).

    La convinzione che l’obiettività non esista è radicata in quella corrente di pensiero definita da Lyotard “postmoderna” e in numerose riflessioni di Nietzsche, valga per tutte il celebra afrorisma: “Non esistono fatti ma solo interpretazioni”.

    Questa forma di relativismo assoluto affonda le sue radici nella Grecia del v secolo a.C. Valgano come esempi l’ argomentazione di Gorgia “L’essere non è, se anche esistesse non potremmo conoscerlo, e in ogni caso non potremmo comunicarlo”; l’affermazione di Protagora sulla relatività d’ogni cosa; la tesi del sofista Trasimaco nella Repubblica di Platone: “La giustizia è solo l’utile del più forte”.

    Valga, per converso,  il racconto del dialogo tra gli ateniesi e gli abitanti dell’isola di Melo durante la Guerra del Peloponneso  raccontata da Tucidide: un esempio di obiettività e di realismo, perfino brutale, da parte di quello che a pieno titolo può considerarsi non solo il più grande storico dell’età classica, ma anche l’antesignano del giornalismo come disciplina e non solo come “mestiere”.

    In epoca moderna la sfiducia nell’obiettività trova espressione in una concezione irrazionalistica della storia, secondo la quale gli eventi umani si susseguirebbero in modo accidentale e arbitrario, privi di senso e fuori d’ogni logica. L’obiettività non esisterebbe, perché, semplicemente, non esisterebbe una realtà oggettiva da comprendere. La negazione dell’oggettività comporta, nell’informazione e nella vita politica, conseguenze più gravi di quanto non sembri a prima vista. Lo scontro per giungere a svelare la verità si trasforma, infatti, nello scontro intorno alla verità: chi ha più potere sui mezzi di comunicazione detiene la verità, poiché la impone come tale e riduce al silenzio la verità degli avversari che, seppure avessero la facoltà di manifestarla, comunque non verrebbero creduti. Basti pensare al modo in cui si impose come vera la notizia delle “armi di distruzione di massa” in mano al presidente irakeno Saddam Hussein oppure alla gigantesca e pervasiva campagna di fake news orchestrata da servizi internazionali di intelligence per interferire nella recente campagna presidenziale americana.

    Che sedicenti verità si possano imporre come tali,  risponde a una realtà di fatto. In un’epoca in cui i conflitti di potere devono fare i conti con le opinioni dell’elettorato, i mass media sono un poderoso instrumentum regni e la propaganda, ancora per molti lustri, sarà indissolubilmente legata al farsi della politica e dell’informazione; ma proprio per questo bisogna tenere saldo il principio dell’oggettività non solo come valore deontologico ma come presupposto del diritto costituzionale all’informazione e alla conoscenza, nella consapevolezza che, negandolo, l’universo dei media si ridurrebbe a un teatro di guerra tra opposte disinformazioni.

    Renato Parascandolo, La televisione oltre la televisione, Editori Riuniti, 2000

  • Antonella Napoli, Rapporto annuale del Committee to protect Journalists: 262 imprigionati nel 2017. Resta la Turchia il ‘carcere più grande’ per giornalisti, 2017

    262. Questa la cifra record dei giornalisti in carcere nel 2017. Lo rileva il rapporto annuale del Committee to Protect Journalists che snocciolando i numeri relativi alla repressione dell’informazione nel mondo denuncia il fallimento della comunità internazionale, incapace di fare pressioni sui “peggiori” governi che impongono il bavaglio ai media affinché migliorino le condizioni della libertà di stampa nei propri paesi.

    Per il secondo anno consecutivo, più della metà sono detenuti in Turchia, Cina ed Egitto.

    Il Comitato per la protezione dei giornalisti nella relazione che accompagna il report afferma che la retorica nazionalista del presidente Donald Trump e l’etichettatura dei media critici come divulgatori di fake news hanno legittimato in qualche modo l’azione repressiva di questi paesi che continuano a imprigionare gli operatori dell’informazione che non si piegano alle logiche dei regimi che li governano.

    Ancora una volta il primato spetta alla Turchia, con 73 giornalisti finiti dietro le sbarre nell’ultimo anno, portando a oltre 170 il totale dei colleghi arrestati dopo il fallito colpo di Stato del luglio 2016.

    Il presidente Recep Tayyp Erdogan aveva già impresso un giro di vite sulla stampa nei primi mesi del 2016 ed è accelerato nell’ultimo anno e mezzo.

    Gravissime le imputazioni rivolte ai giornalisti sospettati di aver supportato la presunta organizzazione terrorista guidata dall’imam auto esiliato negli Stati Uniti Fethullah Gülen ritenuto l’ideatore dello sventato push per deporre Erdogan.

    Le autorità giudiziarie hanno rivolto loro l’accusa di terrorismo basandosi esclusivamente sull’utilizzo di un’app di messaggistica, la Bylock, che i militari golpisti avevano usato come mezzo di comunicazione nella notte tra il 15 e il 16 luglio.

    In Egitto il presidente Abdel Fattah el-Sisi non ha neanche avuto neanche bisogno del paravento di un fallito golpe per inasprire le rappresaglie nei confronti della stampa libera.

    Più della metà dei giornalisti imprigionati in Egitto, 20 nel 2017, è inoltre in cattive condizioni di salute.

    Tra questi il fotoreporter Mahmoud Abou Zeid, noto come Shawkan, arrestato il 14 agosto 2013 mentre copriva per l’agenzia fotografica Demotix di Londra una violenta repressione con centinaia di vittime delle forze di sicurezza egiziane in piazza Rabaa al-Adawiya, al Cairo, dove si stava svolgendo un sit-in della Fratellanza musulmana.

    In carcere da quattro anni lui e i 738 co-imputati del processo sono accusati di possesso di armi, assemblea illegale e omicidio.

    Shawkan è fortemente anemico e ha bisogno di continue trasfusioni di sangue. Nonostante la sua condizione gli sono state negate le cure in ospedale e da mesi è in attesa di un’udienza in Tribunale sulla richiesta degli avvocati di concedergli gli arresti domiciliari. Rinviata di volta in volta, la prossima convocazione è fissata per il 16 dicembre.

    In Egitto come in Turchia e Cina, il secondo paese con il più alto numero di giornalisti in detenzione, le imputazioni di gran lunga più diffuse sono di natura anti-governativa: il 74%.

    Il CPJ ha accertato che i governi repressivi della libertà di stampa usano leggi vaghe e anticostituzionali per intimidire i giornalisti critici, spesso nel silenzio della comunità internazionale.

    Addirittura, in 35 sono incarcerati senza alcuna accusa ufficiale. Decine di casi sono stati trattati senza un giusto processo.

    In paesi come l’Eritrea e la Siria, i giornalisti sotto la custodia del governo non hanno contatti con familiari e avvocati da anni. Emblematica la vicenda dei sette siriani in carcere a Damasco da almeno quattro anni, tra voci non confermate di torture ed esecuzioni.

    Per loro, per i colleghi turchi, per Shawkan e tutti gli altri operatori dell’informazione egiziani ancora detenuti ingiustamente Articolo 21 continuerà a chiedere giustizia e a illuminare le loro storie affinché non vengano dimenticati.

    A cominciare da domani quando insieme ad Amnesty, in vista dell’udienza del 16 dicembre, la scorta mediatica per Giulio Regeni si mobiliterà per chiedere la liberazione di Zeid.

    Fonte: Sito web di Articolo 21, 13/12/2017

  • Alessandro Pace, Democrazia e libertà di espressione, 2014

    Tra democrazia e libertà di espressione sussiste un legame indissolubile; e colpire quello che gli americani chiamano il free flow of informations (libertà di informare, di informarsi e di essere informati) significa colpire al cuore lo  stesso Stato democratico.

    Si può quindi sottoscrivere quanto osservava molti anni fa Stefano Rodotà[1]: la democrazia non può «essere ridotta soltanto al momento estremo del voto finale che chiude il periodo elettorale o un procedimento di decisione»[2]. È infatti sempre più evidente «che la disponibilità dell’informazione ha, in sé, un valore democratico, perché permette trasparenza e diffusione del potere, e può consentire un controllo di chi prende le decisioni, attraverso una critica argomentata o, addirittura, una contrapposizione di diverse ipotesi, grazie anche alla crescente possibilità di passare da modelli di decisione piramidale a modelli di decisione a rete»[3].

    Ciò che soprattutto rileva per uno Stato democratico non è quindi la “passiva” libertà dei suoi cittadini di “ricevere” informazioni (e cioè la libertà di essere informati, alla quale la libertà di informarsi è spesso appaiata), ma l’“attiva” libertà d’informarsi. Essa rileva per lo Stato democratico, non tanto (o non solo) perché il cittadino possa a sua volta manifestare (ciò che ha indotto autorevoli studiosi a ritenere la libertà di informarsi implicitamente garantita dall’art. 21 Cost.), quanto perché egli possa contribuire consapevolmente, nei più vari settori, ai destini della comunità nella quale vive e opera[4].

    Che […] si parli, in primo luogo, come qui faccio, della libertà di informarsi è certamente inusuale. È infatti scontato che, da un punto di vista storico-giuridico, essa non rivesta l’importanza della “libertà di informare” e che notoriamente essa vive “di riflesso” grazie al sistema informativo, privato e pubblico, esistente in un dato momento storico […]. Ed è proprio per questo modo riduttivo di intendere la libertà di informarsi, che a quest’ultima non è stata finora riconosciuta un’autonomia concettuale, essendo stata in genere ritenuta implicita nel riconoscimento costituzionale della libertà di informare, in quanto strumentale ad essa[5].

    A ben vedere, la libertà di informarsi svolge però nella democrazia un ruolo cruciale, che induce a una qualche riflessione ulteriore […].

    È ben vero che la libertà d’informarsi dipende integralmente dalle fonti pubbliche e private d’informazione e, quando queste s’inaridiscono, l’utente non ha modo di attivarle. Tuttavia è altrettanto vero che la libertà d’informarsi non serve solo per manifestare il proprio pensiero, ma anche per esercitare attività e funzioni addirittura di rilevanza costituzionale. Ne segue che il suo fondamento costituzionale non sta tanto, implicitamente, nell’art. 21 Cost., ma – altrettanto implicitamente – in tutte quelle norme costituzionali che configurano la posizione costituzionale del cittadino nello Stato democratico (artt. 1, 3, 9, 33, 51, 64, 97 Cost.).

    Alessandro Pace Informazione: valori e situazioni soggettive, in  Diritto e società, 2014, pp. 734-771, qui pp. 757-758)


    [1] Nello stesso senso vedi Amartya Sen, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è una invenzione dell’Occidente, Mondadori, Milano, 2004, il quale elenca tutta una serie di precedenti ultrasecolari extraeuropei sul rapporto tra democrazia e dibattito pubblico, per dimostrare come la democrazia possa realizzarsi pur prescindendo dall’idea occidentale dell’elezione politica (il che però è assai discutibile).

    [2] Stefano Rodotà, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Roma-Bari, 1997, pp. 4 ss.

    [3] Stefano Rodotà, ibid. p. 4.

    [4] Si badi che il discrimine, tra libertà di informarsi e libertà di essere informato, è sottilissimo, posto che lo stesso comportamento può rilevare in un senso o nell’altro, a seconda dell’animus che lo caratterizza, come è dimostrato dal diverso approccio che l’utente può avere con la fonte informativa (ad es. il televisore): approccio dinamico, e selettivo, nel caso della libertà d’informarsi; puramente passivo e aprioristicamente recettivo, nel caso della libertà di essere informati.

    [5] Così anche Vezio Crisafulli, Problematica della “libertà d’informazione” in Il politico, 1964, p. 300.

  • Alessandro Pace, La tutela della riservatezza e dell'onore del terzo nei confronti dei mezzi di comunicazione di massa, 1992

    Qualsiasi trattazione, ancorché rapida e sommaria, degli aspetti giuridici dei mass media non può concludersi senza un accenno alle tecniche generalmente utilizzate per salvaguardare quelli che, con formula generica ma efficace, sono chiamati i 'valori della persona umana'. L'incidenza sui quali - a ben vedere - è, per così dire, 'fisiologica' nelle comunicazioni di massa, sia nel momento dell'acquisizione dei dati informativi (fonici, iconici, letterari) necessari per la predisposizione del messaggio, sia nel momento della sua diffusione tra gli utenti. È perciò di tutta evidenza come anche nelle varie regolamentazioni giuridiche discusse in questa sede vengano in considerazione le due idee-forza di cui si è già parlato nel precedente capitolo, ancorché le 'parti', a seconda della situazione considerata, appaiano di volta in volta invertite. Infatti, mentre nella fase della diffusione del messaggio l'emittente usualmente si appella - a ragione o a torto, qui non interessa - al proprio diritto di 'liberamente' informare, laddove il pubblico pretenderebbe di essere 'doverosamente' informato, nella fase dell'acquisizione dei fatti l'emittente pretende di accedere alle fonti notiziali, laddove la fonte (nella generalità dei casi una persona fisica, nella sua veste privata o in quella di esercente pubbliche funzioni) afferma il suo diritto a scegliere 'se', 'come' e 'quando' concedere i dati. Le soluzioni che gli ordinamenti danno a questa prima serie di problemi sono però coe/renti con quelle già discusse nel precedente capitolo. Come non esiste, né in Italia né altrove, un diritto del singolo a ottenere dati e informazioni da un organo o da un ente pubblico, se non là dove la legge lo consenta, e da un soggetto privato se non nei casi in cui, non sussistendo la libertà di quest'ultimo di (non) manifestare il proprio pensiero, il legislatore gli imponga di fornire al richiedente i dati a sua conoscenza, così nemmeno esiste un 'privilegio' del giornalista di accedere alle fonti con modalità diverse da quelle previste per i privati anche se lo status di giornalista (implicando specifici doveri di correttezza professionale) può di fatto talvolta favorire l'accesso ad alcune fonti di natura pubblica, ad esempio quelle giudiziarie. Giuridicamente non esiste, però, alcun 'privilegio' del giornalista. Del resto, è bensì vero che alcuni testi normativi ricomprendono, nella libertà di informare, "la libertà di cercare e di ricevere informazioni" (art. l0 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950, recepita in Italia con la legge n. 848 del 4 agosto 1955; art. 19, comma 2, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966, recepito in Italia con la legge n. 881 del 25 ottobre 1977; art. 5, comma 1, della Legge fondamentale della Rep. Fed. di Germania; art. 20, comma l lett. d, della Costituzione spagnola, ecc.), ma questa libertà (del giornalista, così come del quisque de populo) viene costantemente riferita alle fonti 'generalmente accessibili', con il che il problema si risolve tornando a quanto già detto: si risolve, cioè, in concreto, nell'individuazione di specifici doveri legali di (consentire l'altrui) informazione, ovvero nell’apprendimento diretto di quei dati (contenuti in un articolo, in una radiocronaca ecc.) che costituiscono il 'risultato sociale' dell'esercizio dell' altrui libertà (attiva) di informare. Non ricorrendo tali ipotesi, il giornalista (o l'impresa da cui esso dipende) dovrà 'negoziare' l'accesso alla fonte, che altrimenti gli sarebbe preclusa (ad esempio, è pacifico che dovrà ottenere il consenso per la ripresa radiotelevisiva integrale di uno spettacolo, i cui diritti di sfruttamento economico spettano all'organizzatore; si discute invece se la ripresa radiotelevisiva parziale di uno spettacolo sportivo - o la diffusione parziale di esso - debba comunque essere consentita in omaggio al diritto di cronaca, ammettendosi così un sia pur limitato diritto di accesso alla fonte come aspetto della libertà di informare).

    Con specifico riferimento alla tutela del privato, la barriera giuridica generalmente frapposta dagli ordinamenti contro gli abusi dei mezzi di comunicazione di massa è duplice: la prima corrisponde alla fase di acquisizione dei dati informativi (fonoregistrazioni, filmati, fotografie, documenti ecc.), la seconda alle modalità e ai contenuti del messaggio scritto o radiodiffuso.

    La prima si risolve nel considerare illeciti tutti quei servizi giornalistici o programmi radiotelevisivi che si fondino su dati materialmente acquisiti in violazione dell'altrui 'riservatezza' (ovvero - sotto un profilo costituzionale - in violazione dell'altrui libertà della persona fisica, del domicilio, delle comunicazioni riservate ecc.: artt. 13, 14, 15 della Costituzione italiana; I, IV, V emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, ecc.), nonché in violazione degli altri diritti personali o reali spettanti al terzo (ripresa visiva o sonora dell'altrui vita privata, indebitamente effettuata nell'altrui dimora; cognizione indebita di corrispondenza diretta ad altri; cognizione fraudolenta del contenuto di conversazioni telefoniche o telegrafiche; arbitraria rivelazione del contenuto di conversazioni telegrafiche o telefoniche; furto e appropriazione indebita di documenti contenenti indagini riservate sulla vita privata di un lavoratore; impossessamento dei medesimi a seguito di estorsione ecc.); la seconda considera illeciti tutti quei servizi giornalistici o programmi radiotelevisivi che, pur basandosi su dati informativi lecitamente acquisiti, ne effettuino un'utilizzazione indebita (pubblicazione dell'immagine altrui senza il consenso dell'interessato; diffusione di fatti privati, privi di rilevanza sociale; rappresentazione infedele di una persona con attribuzione alla medesima di caratteri, qualità, aspetti inesistenti o diversi da quelli reali ovvero con l'omissione di aspetti propri della medesima ecc.) ovvero un'utilizzazione specificamente lesiva dell'onore (pubblicazione autorizzata dell'immagine altrui, ma con modalità tali da pregiudicarne il decoro o la reputazione; lesione dell'altrui reputazione in maniera generica oppure mediante l'attribuzione di un determinato fatto non vero, oppure mediante l'attribuzione, con modalità di per sé diffamatorie, di un fatto vero ecc.). A questa seconda 'barriera' si ispira l'orientamento giurisprudenziale, affermatosi in Italia e all'estero, che da un lato pretende dal giornalista la 'forma civile' dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione e, dall'altro, richiede che le notizie siano d'interesse pubblicò (fair comment on a matter of public interest), conseguentemente negando la garanzia costituzionale della libertà d'informazione alle notizie che non abbiano rilevanza sociale (la semplice libertà di parola è perciò considerata 'non prevalente' rispetto alla tutela della riservatezza). La tutela della privacy e, indirettamente, dell'onore e della reputazione viene perciò perseguita non mediante la precisa individuazione dei limiti della libertà d'informazione (come sarebbe corretto) bensì conferendo al giudice il potere discrezionale di distinguere le notizie di pubblico interesse dalle altre (il che lascia perplessi).

    Alessandro Pace, Comunicazioni di massa, Diritto, nell'Enciclopedia delle Scienze sociali, vol. II, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1992, pp. 184-185

  • Diritto all'informazione

    Il diritto all’informazione – alcuni studiosi preferiscono utilizzare la locuzione libertà di informazione – rileva sotto due o tre diversi aspetti: come libertà di informare e come diritto ad essere informati, oppure (secondo Lavagna) come diritto di informare, cioè di trasmettere notizie agli altri, come diritto di informarsi, cioè di attingere informazioni da più fonti, e come diritto di essere informati. Mentre è pacifico che il primo aspetto rientri nella più generale libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost., più problematico appare il legame con il testo costituzionale nel caso del secondo e del terzo aspetto. A differenza di altri testi costituzionali (art. 5 Legge fondamentale Germania 1949; art. 20-D Cost. Spagna 1978) e di quanto previsto da dichiarazioni internazionali e/o sovranazionali dei diritti (art. 19 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo 1948; art. 10 CEDU; art. 19 Patto internazionale sui diritti civili e politici 1966; art. 11 Carta dei diritti fondamentali dell’U.E.), la Costituzione italiana non prevede espressamente un diritto all’informazione.

    Molti studiosi – è il caso, ad esempio, di C. Mortati – hanno ricondotto il diritto di essere informati (sia come diritto di ricevere informazioni che come diritto di ricercarle) all’art. 21 Cost., sulla base anche di una costante giurisprudenza costituzionale, che ha considerato questo diritto un «risvolto passivo della libertà di manifestazione del pensiero». D’altra parte, proprio in virtù del collegamento con l’art. 21 Cost. e facendo proprie le tesi espresse dalla stessa Corte costituzionale, alcuni autori (ad esempio, Paladin) hanno parlato di un mero interesse all’informazione e non di un vero e proprio diritto azionabile in sede giudiziaria. Altri studiosi – è il caso, invece, di C. Esposito – hanno negato l’automatico collegamento tra diritto all’informazione e libertà di manifestazione del pensiero. Alcuni autori, infine, hanno configurato il diritto all’informazione come una conseguenza del principio democratico, poiché un regime democratico (Democrazia) necessita sempre di una pubblica opinione vigile e informata (Comunicazione politica): questa esigenza generale di pubblicità, che si specificherebbe ulteriormente nel principio dell’accesso ai documenti delle pubbliche amministrazioni (l. n. 349/1986; l. n. 142/1990; d.lgs. 267/2000; l. n. 15/2005), trova un limite nella tutela del segreto.

    Tra le varie forme di segreto, il più importante è sicuramente il c.d. segreto di Stato, recentemente ridisciplinato con la l. n. 124/2007, che ha sostituito la precedente l. n. 801/1977. L’apposizione del segreto di Stato deve avere una giustificazione costituzionale, nel senso che deve essere fondata sulla tutela di interessi costituzionalmente protetti (la l. n. 124/2007 si riferisce appunto alla diffusione di qualunque cosa che possa recare «danno all’integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato»). In ogni caso, l’apposizione del segreto di Stato non può riguardare «fatti di terrorismo o eversivi dell’ordine costituzionale» (l. n. 124/2007), laddove la l. n. 801/1977, riprendendo le affermazioni della giurisprudenza costituzionale, si riferiva esclusivamente ai «fatti eversivi dell’ordine costituzionale».

    Un peculiare aspetto del diritto all’informazione è il c.d. diritto di cronaca (o ius narrandi), cioè il diritto di raccontare ciò che avviene, con un eventuale commento. Esso incontra, oltre al già citato limite del segreto, anche i limiti rappresentati dalla tutela dell’onore (a protezione del quale è stato previsto l’istituto della rettifica), della riservatezza, del buon costume e, secondo alcuni studiosi, anche dello stesso ordine pubblico. Un’ulteriore limitazione al diritto di cronaca è quella contenuta nella c.d. par condicio (Comunicazione politica): non vi è dubbio, infatti, che la normativa vigente, nel prevedere l’obbligo di assicurare la parità di condizioni tra le forze politiche in occasione delle elezioni, finisca con l’incidere anche sulla stessa libertà di informare.

    Fonte: Enciclopedia Treccani

  • Caltanissetta, gli studenti del liceo scientifico “A. Volta” a lezione di attualità da Attilio Bolzoni. Il Fatto Nisseno, 23 febbraio 2018